«Perché scegliere come mio partner chi mi fa più soffrire? Perché è così difficile separarsi da legami che ci fanno ammalare, che anziché potenziare e arricchire la nostra vita la immiseriscono e la mortificano?» [Massimo Recalcati, Ritratti del desiderio, Cortina, 2012, p. 97].
Interrogandosi su «tutti quei comportamenti che fissano il soggetto a ripetere compulsivamente esperienze dolorose o contrarie alla conservazione della vita», Recalcati equipara quelle che comunemente vengono chiamate “relazioni passionali” alle cosiddette dipendenze patologiche (tossicomania, bulimia, alcolismo ecc.) e si chiede ancora:
«Perché un soggetto si rende schiavo di un padrone folle (la sostanza) che lo distrugge? Perché deve mangiare fino a farsi scoppiare lo stomaco, fino a morire? Perché deve spingere la propria volontà di godimento sino a correre il rischio della morte?» (idem).
E qui la parola godimento provoca un sussulto e forse anche una reazione di rigetto, considerate le sofferenze che sono in gioco nella situazione di cui parliamo. Ma si tratta di un termine usato in modo molto specifico nella visione antropologica sostenuta dalla psicoanalisi lacaniana, che rilegge Freud alla luce degli sviluppi (fondamentalmente regressivi) caratteristici della società ipermoderna in cui viviamo.
Sappiamo che Freud, di fronte alla constatazione che i pazienti sembrano non voler guarire da ciò che fa loro male (i fenomeni della coazione a ripetere e della resistenza in analisi), aveva ipotizzato un al di là del principio di piacere – ossia quel principio funzionale alla conservazione della vita, in una sorta di “edonismo naturalistico” tendente alla soddisfazione dei bisogni/desideri allo scopo di ripristinare l’equilibrio e l’omeostasi nel sistema psico-fisico – ed era approdato alla formulazione di una opposta tendenza, la pulsione di morte, indifferente più che contraria alla vita, che Lacan rinominerà pulsione di godimento per dare maggiore enfasi a quell’elemento di eccesso, dismisura, mancanza di limite e regolazione, in una parola a quella mancanza di coscienza che la pulsione sembra mostrare quando il suo appagamento diventa più importante del benessere del soggetto e della sua stessa vita.
Un desiderio in eccesso, o un eccesso del desiderio, ossia un bisogno incontenibile, che nel caso della donna gravita prevalentemente intorno alla domanda d’amore, a cui è sempre correlata un’esigenza profonda di riconoscimento. La riflessione deve quindi cercare di risalire ai motivi di quell’eccedenza di bisogno che devia in modo distruttivo la sana ricerca di un rapporto d’amore, intendendo per sana la volontà, più o meno consapevole, di trovare nella relazione con l’altro, insieme alla reciprocità affettiva, il riconoscimento, la valorizzazione e il rispetto capaci di alimentare un senso di sé positivo, accrescere l’autostima e favorire la libera espressione individuale: in armonia con il principio di piacere (benessere). È la costruzione di uno spazio di relazione nel quale due individui si sentano liberi di continuare a conoscere se stessi e l’altro, in un processo di crescita reciprocamente accettato e incoraggiato.
Intanto va detto che nell’immaginario collettivo questo processo di crescita e di espressione personale non trova la stessa legittimazione per gli uomini e per le donne e che queste ultime troppo spesso lasciano che la “cultura” dominante fissi limiti (arbitrari) alla loro esigenza di autonomia, già minata da condizionamenti anche familiari cui loro stesse sono soggette. La dimensione storico-culturale legata alla persistenza di modelli di genere, che sanzionano ogni deviazione dai ruoli tradizionalmente assegnati ai due sessi, merita un discorso a parte, per la vastità del tema e dei fattori in gioco.
Con una operazione per certi versi arbitraria, come è arbitraria ogni generalizzazione, desidero qui tentare una possibile lettura delle determinanti psicologiche che possono spingere una donna a tollerare situazioni estreme, caratterizzate da continue esplicite violazioni, sul piano fisico come su quello psichico, della sua volontà, libertà e dignità personale, proprio da parte di chi proclama di amarla e in nome di quell’amore vorrebbe giustificare comportamenti, peraltro sempre ingiustificabili, di sopraffazione e possesso; qualcuno che spesso, almeno nella mia esperienza psicoterapeutica, presenta in modo evidente, ma non agli occhi di chi ne è vittima, alcune caratteristiche della psicopatia: l’uso spregiudicato dell’altro a scopi personali (puramente narcisistici) senza provare mai il minimo senso di colpa per l’umiliazione che infligge a un altro essere umano, di cui ritiene di poter disporre liberamente, come fosse un oggetto.
Ciò che mantiene una donna adesivamente legata e dipendente da una figura maschile di questo tipo sembra essere in alcuni casi una mancanza primaria, reale o percepita, che risale alle primissime fasi dell’esistenza: una mancanza di rassicurazione (Bowlby), di rispecchiamento (Kohut), di contenimento (Winnicott), di alfabetizzazione (Bion) ecc., per citare solo alcuni dei modi in cui viene definito questo difetto di base (Balint), che rimanda sempre a una mancanza di sintonia nella “relazione primaria” e che si traduce in una difettosa percezione di sé, oltre che nell’incapacità di metabolizzare le emozioni e i bisogni, soprattutto quel bisogno di riconoscimento e d’amore che non ha trovato risposte appropriate, sufficienti a far sentire la persona legittimata a ricevere amore e considerazione. A ciò si associa, inevitabilmente, l’incapacità di mitigarne l’obbligatorietà primitiva attraverso il filtro della coscienza. (Da qui il riferimento di Recalcati al concetto lacaniano di godimento).
Quel difetto di base a volte sembra diventare perfino una sorta di bussola che spinge in età adulta alla ricerca attiva (e tuttavia inconsapevole) dello stesso modello di relazione vissuto e patito nell’infanzia, almeno nel suo significato psicologico inconscio: forse nel tentativo vano di correggerne le distorsioni, attraverso l’idealizzazione dell’amore stesso e del suo potere curativo: “Il mio amore lo cambierà” sembrano dire, con il loro silenzio e il loro irriducibile attaccamento, le donne che subiscono ogni tipo di prevaricazione da parte di chi dice di amarle e che con atteggiamenti “passionali” sembra darne conferma.
Si tratta dunque generalmente di persone che nell’infanzia, già prima dell’acquisizione del linguaggio, hanno vissuto sulla propria pelle, letteralmente nel corpo, un’esperienza traumatica. Con questo termine intendo non tanto un singolo evento di gravità eccezionale, ma piuttosto la ripetizione e l’accumulazione nel tempo di atteggiamenti e comportamenti, spesso all’apparenza insignificanti e del tutto ordinari, che tuttavia sono stati percepiti come espressione di non-accoglimento e non-riconoscimento da parte della figura di riferimento, prevalentemente la madre o chi ne ha la funzione, che per qualche motivo è stata emotivamente indisponibile. Tale indisponibilità può essere dovuta a un eccesso di ansia, al dolore di una perdita, a una precoce separazione provocata da una malattia fisica (della madre stessa o della figlia), alla depressione, alla solitudine di fronte a un compito sentito soverchiante, o alle infinite altre ragioni personali che possono impedire a una madre, pur animata dalle migliori intenzioni, di “ascoltare” realmente i bisogni di un neonato che da solo non può nulla per alleviare i propri disagi e che finisce in un pozzo di terrore senza nome se le sue emozioni e i suoi bisogni non vengono raccolti, contenuti, alfabetizzati, ossia resi disponibili all’ulteriore elaborazione da una sorta di preventiva metabolizzazione operata dalla madre, che in tal modo li libera dall’angoscia primitiva che li pervade. Spesso la causa di tale indisponibilità sta semplicemente nella non conoscenza dei reali bisogni che caratterizzano l’infanzia di ogni essere umano e della conseguente acritica adesione a modelli “educativi” tradizionali, oggi messi in discussione dalla psicologia evolutiva.
Studi fondati sull’osservazione diretta dell’interazione tra madre e bambino a partire dalla nascita hanno dimostrato come la mancanza di sintonia (a volte co-determinata da un’attitudine troppo passiva del bambino stesso che non sollecita adeguatamente la risposta materna) possa generare un attaccamento insicuro e dunque fortemente segnato dall’angoscia di separazione; con Bowlby diremmo che non si costituisce quella base sicura su cui costruire con relativa fiducia ogni successivo rapporto umano, oltre che il rapporto con se stessi e con il mondo esterno in generale. Anche in età adulta le relazioni possono continuare a essere adesive perché ogni allontanamento dell’altro, e dall’altro, evoca il fantasma dell’abbandono: una donna può dunque attaccarsi adesivamente all’uomo che la maltratta anche perché non è in grado di tollerare l’idea del possibile abbandono conseguente alla sua ribellione, per non parlare delle conseguenze temute nel caso di una denuncia esplicita del maltrattamento subìto.
Queste considerazioni sono solo una sommaria e incompleta introduzione a un tema, delicato e complesso, che ovviamente coinvolge in vario modo anche il ruolo del padre (in quanto “padre” e in quanto “compagno della madre”) nella strutturazione di questo e altri modelli di relazione, cui concorrono ulteriormente fattori sociali, educativi e culturali. Di questi altri aspetti si parlerà in successivi interventi.