L’eccellenza del Cattinara di Trieste: articolo su “Panorama”

Dal 1994 al 2013, in Italia, 212 persone hanno chiesto e ottenuto di cambiare genere per via chirurgica . All’ospedale Cattinara di Trieste oggi in 24 sono in lista d’attesa. Di una rinascita.

LA CLINICA DOVE SI ENTRA UDMINI E SI ESCE DONNE (E VICEVERSA]
(da “Panorama”, 20.08.2014)

Trieste. L’uomo zucca si trasforma in Cenerentola e l’anatroccolo nato maschio rinasce cigno femmina. Più che un ambulatorio di frontiera, l’ospedale Cattinara sembra una liberazione, e non  la prima eccellenza italiana di chirurgia urologica che permette di cambiare sesso, di ristabilire un’identità che il corpo ha intrappolato.

Al dodicesimo piano della torre chirurgica non si mescola la sessualità, ma si separa l’ambiguità sessuale che qui chiamano «disturbo di genere», meglio ancora «disforia» come suggerisce Carlo Trombetta, professore di urologia, novizio instancabile e pioniere consumato di questi interventi che ancora si trascinano dietro un’aura di pregiudizio: «Ci chiamavano “Casablanca”. Fare questo tipo di operazioni è stato un obbligo civile, ma un ghetto nello stesso tempo». Come avviene spesso, la battuta di spirito, il fascino esotico della città marocchina dove si realizzava l’inversione sessuale, nasconde il dramma vero della nazione clandestina che girovaga per avere un figlio, per cambiare nell’ombra: «C’è sempre stata una tratta internazionale anche per cambiare sesso, e non solo per la fecondazione assistita» dice Trombetta.

Con le sue 18 operazioni l’anno, Trieste può vantarsi di essere il faro di una medicina laterale, fino a 50 anni fa inesistente: una risposta al transessualismo irrisolto che il codice Rocco puniva come «lesione alla stirpe» e che solo una legge del 1982, una delle più avanzate d’Europa, ha dovuto riconoscere come una possibilità. E sarà la specificità dei luoghi, ma non poteva che essere questa città, capitale italiana della psicanalisi che sviscera e spreme le ragioni del sesso, a modificare il genere e infine a riassegnarlo. Nell’audace Trieste la parola «transgender» ha smesso di avere l’impronta dissoluta del marciapiede, e non è neppure l’accoppiamento negli angiporti del trasgressivo regista tedesco Rainer Fassbinder, o la mescalina che ispirava lo scrittore Jean Genet.

Al Cattinara la mancata corrispondenza tra corpo e genere viene risolta con un percorso stretto e sofferto, di cui si fa carico la sessuologa Laura Scati, e solo nei casi più evidenti si conclude con l’asportazione di pene e testicoli, o con la vera e propria costruzione, attraverso protesi, di un sesso maschile previsto negli interventi per la trasformazione da donna a uomo. La soluzione dal disturbo di genere richiede una cura ormonale, la diagnosi della psichiatria, la sentenza di un giudice che autorizzi l’operazione. «La legge del 1982 era invidiata perfino dal mondo anglosassone. Con la modifica del 2011 siamo solo riusciti a peggiorarla e ad allungare i tempi» racconta Mariachiara Di Ganci, un’appassionata legale, la più competente d’Italia per i casi di disforia. L’avvocato quasi rimpiange la vecchia giurisprudenza: «Oggi il rito è complesso. Serve un ricorso al pubblico ministero, una citazione al coniuge per chi è sposato. E nella modifica della procedura si cela l’allungamento dei tempi».

Di Ganci spiega che, nella palude dei regolamenti, ogni corte si è organizzata a suo modo: «Ci sono tribunali che prevedono un contributo di 450 euro solo per istruire la pratica, altri che non lo prevedono. Di sicuro la sentenza non arriva prima di due anni. Poi, dopo l’operazione  chirurgica, ricomincia l’ingorgo di timbri e sentenze per vedersi riconoscere il nuovo nome. Il percorso giuridico e medico sfiora gli 8 anni». Eppure, secondo Trombetta, uno dei primi guasti risiede nella stessa parola «transessuale»: «Bisogna capire» dice «che non sempre al sesso corrisponde il genere». Oggi a operarsi sono professionisti, medici, parrucchieri, ufficiali dell’esercito, imprenditori, professori…

In Italia i primi interventi di cambio sesso risalgono al 1986: furono realizzati dal medico Marten Perolino all’ospedale Mauriziano di Torino, capostipite della «scuola piemontese» come la chiama Trombetta. La modestia gli impedisce di riconoscere il rettorato della sua e del professore Emanuele Belgrano, una trans-équipe multidisciplinare che si è ibridata: radiologia, endocrinologia, chirurgia plastica, infettivologia, psichiatria, sessuologia. Dal 1994 al 2013, in Italia, sono stati 212 a decidere di sottoporsi a operazione di cambio di genere. «Attendono nonostante gli anni, e pensano all’intervento come a una rinascita» dice Mara Bagagiolo, responsabile infermieristica di dipartimento, soddisfatta di aver ridotto i tempi di attesa (2 anni circa) e incrementato gli interventi da 14 a 18 l’anno. Attualmente sono 24 i pazienti in lista di attesa, e sono 6 quelli operati nel 2014, tutti a carico del servizio sanitario (la soluzione privata ha un costo di 15 mila euro). Le richieste arrivano da fuori regione, la Sicilia su tutte, e anche dalla Lombardia.

Finora sono solo 5 gli altri ospedali che praticano la chirurgia di genere: Milano, Torino, Roma, Pisa, Bari. Al Cattinara i pazienti che si sottopongono a intervento sono alloggiati in una stanza separata dal reparto. La degenza dura sui 10 giorni spiega Bagagiolo: «Non si è mai riusciti a spiegare bene che non si tratta di una scelta di comportamento sessuale» dice «ma di una necessità».

La metamorfosi è un’operazione chirurgica di 7 ore, che si divide tra fase demolitoria e costruttiva, con l’incisione di un’area chiamata perineo: il glande viene modificato in clitoride e si crea la cavità vaginale con la stessa cute che viene asportata. E però all’ospedale Cattinara non c’è il folle entusiasmo della medicina che rapisce l’uomo di scienza. Trombetta è  un genovese dibattuto, ha il cruccio della morale, il tormento del pensiero: «Condivido ansie. Ho trascorso la mia vita medica dedicandomi alla fertilità maschile. Oggi sono a chiamato a compiere un gesto che impedisce qualsiasi forma di paternità». Il professore avverte che è forse arrivato il momento di chiedersi se, come avviene in Inghilterra, sia giusto rallentare la pubertà nei giovani malati di disturbo di genere, e concedere loro la possibilità di crioconservare il seme per chi decide di sottoporsi a interventi di cambio sesso. Altrettanto utile sarebbe chiedersi se cambiare sesso possa essere considerato una patologia o, come rivendica il vicesindaco pd di Viareggio Chiara Romanini, che ai primi d’agosto ha annunciato l’intenzione di mutare sesso, sia solo un altro modo di vivere la sessualità e di realizzarla.

A Trieste c’è anche un’angoscia della ricerca, che esprime brillantemente il direttore del reparto di chirurgia plastica, Zoran Arnetz, sloveno d’origine: «Mi fa impazzire l’idea di espiantare una parte del corpo funzionante. Ma il medico non è un giudice, è solo un servo del paziente e ne accetta i bisogni fino a quando quei bisogni producono un male minore del male che si va a guarire». Anche Giovanni Liguori, direttore della clinica chirurgica e che opera al Cattinara al fianco di Trombetta, cerca di celare nella riservatezza un dovere morale di cui sente di farsi carico: «C’è una richiesta ed è necessario che qualcuno risponda. Noi non siamo né eroi, né maghi del bisturi. Ci prendiamo cura di chi soffre e cerchiamo di restituire serenità». In effetti doppiezza e ambivalenza dopo l’intervento chirurgico svaniscono. Lo testimonia Antonella, che era Antonio, operata a Trieste nel 2010: un’allegra faccia sorridente, che non ha voluto sottoporsi ad altre operazione per ingentilirsi. «Nessuna protesi per il seno, solo gli ormoni che continuo ad assumere». Aveva paura, prima? «Ho sempre avuto paura delle operazioni chirurgiche» risponde Antonella «ma non di questa. Non è stata un’amputazione, ma una rinascita, la vita che si intensifica. Ero in una terra di mezzo. Poi è stato il paradiso». Antonella ha conservato la mascella da uomo, quella che uno psichiatra canzonò: «Come si può essere donna con quella mandibola?». Le mani sono quelle della fatica, da perito tecnico che si sporca nei cantieri, il fisico è solido, con un volto sano che la chirurgia non ha alterato né sciupato. Forse per questo Antonella risulta vera al punto da far dimenticare l’idea del transessuale un po’ caricaturale, diffuso dal cinema di Pedro Almodóvar. «Se avessi un figlio» dice «non vorrei che mi chiamasse mamma, oppure genitore 1 o genitore 2. M’inventerei la parola: sarei “la papà”». Si ferma. Poi sorride: «Sì, per me questa operazione è stata davvero il paradiso»

(Nella foto) Chirurghi & psicologi – L’équipe dell’ospedale Cattinara di Trieste, che si occupa dei cambi di genere: in primo piano, seduto, il professor Carlo Trombetta. Il pimo in piedi, da sinistra, è Giovanni Liguori, direttore della clinica chirurgica. Dopo il bisturi Ancora il professor Trombetta nell’ospedale Cattinara di Trieste, durante una visita postintervento. In primo piano, una paziente operata da poco e con le gambe ancora fasciate: in media la degenza dura 10 giorni. Operazioni di questo tipo si svolgono anche a Milano, Torino, Pisa, Roma e Bari. Secondo te è da semplificare la burocrazia sui cambi di sesso?

Un caso pubblico: Chiara Romanini, 31 anni, vicesindaco pd di Viareggio (Lucca), ai primi di agosto ha annunciato che in settembre si opererà per cambiare sesso. Dopo modificherà anche il nome: si chiamerà Gian Marco.

(di Carmelo Caruso – Foto di Fabrizio Giraldi)